venerdì 4 maggio 2007

La condanna dell’ebreicidio non può essere dissociata dalla condanna delle infamie coloniali del Terzo Reich. Vera e falsa critica del negazionismo

di Domenico Losurdo (In corso di pubblicazione sulla rivista "l'ernesto")

«Giammai Hitler ha ordinato o permesso di uccidere una persona in ragione della razza o della religione»: questa difesa dell’onore del Führer e del Terzo Reich si può leggere nel più recente intervento di Robert Faurisson. Dopo aver criminalizzato la vicenda iniziata con la rivoluzione d’Ottobre e aver proceduto alla riabilitazione più o meno esplicita di Mussolini, di Franco, dei «ragazzi di Salò», il revisonismo storico che infuria da decenni giunge alle sue logiche conlusioni.

1. Negazionismo anti-ebraico e negazionismo filo-colonialista

Per comprendere l’assurdità della presa di posizione di Faurisson, basta metterla a confronto con la descrizione che della guerra condotta dalla Germania nazista in Europa orientale fa un altro esponente di spicco del revsionismo storico, e cioè David Irving. Nonostante le sue reticenze e le sue piroette, questi non riesce a occultare l’essenziale: accenna ai «barbari massacri di ebrei sovietici» e riconosce che, pur «coperta da eufemismi sottili», l’«intera attività omicida dei nazisti» era comunque chiamata a uccidere «senza distinzioni di classe sociale, di sesso o di età»; le stesse squadre speciali riuscivano a portare a termine il loro compito «soltanto sotto l’effetto dell’alcool». Tali ammissioni sono però gravemente indebolite dalla tesi secondo cui Hitler era forse all’oscuro di tutto! Eppure, è lo stesso Irving ad osservare che il Führer considerava «eccellente» e meritevole della più ampia diffusione il proclama con cui il generale W. von Reichenau chiariva ai suoi soldati un punto essenziale: occorreva esigere «un duro ma giusto tributo dai subumani ebrei». La de-umanizzazione delle vittime, degradate a Untermenschen, apre le porte alla «soluzione finale». Se ridicole sono le contorsioni di Irving, un vero e proprio insulto alla verità storica e alla memoria delle vittime si può leggere nelle parole di Faurisson.
Come contrastare la deriva revisionista, più o meno radicale, che si manifesta in settori non trascurabili della cultura occidentale? Poniamoci un’ulteriore domanda: sono soltanto gli ebrei ad essere insultati dalla riabilitazione più o meno esplicita del fascismo e persino del Terzo Reich? Riflettiamo sulla dichiarazione di Faurisson da me riportata all’inizio: «Giammai Hitler ha ordinato o permesso di uccidere una persona in ragione della razza o della religione». Abbiamo visto la sorte riservata agli ebrei nel corso della guerra contro l’Unione Sovietica. Ma ora leggiamo le diposizioni impartite dal Führer alla vigilia dell’aggressione contro la Polonia: s’impone l’«eliminazione delle forze vitali» del popolo polacco; occorre «procedere in modo brutale» senza lasciarsi inceppare dalla «compassione»; «il diritto è dalla parte del più forte». Analoghe o forse ancora più drastiche sono le direttive che presiedono all’operazione Barbarossa: una volta catturati, occorre eliminare immediatamente i commissari politici, i quadri dell’Armata Rossa, dello Stato sovietico e del partito comunista; in Oriente s’impone una «durezza» estrema e gli ufficiali e i soldati tedeschi sono chiamati a «superare le loro riserve» e i loro scrupoli morali. Nell’ambito del suo progetto di edificazione di un grande impero continentale in Europa orientale, Hitler per un verso assimila gli abitanti di quest’area ai pellorossa: essi devono essere espropriati e decimati in modo da consentire l’espansione coloniale della razza bianca e ariana; per un altro verso la popolazione residua è destinata ad erogare lavoro servile al servizio della razza dei signori. Ma perché popoli di antica civiltà possano essere ricondotti alla condizione di pellerossa (da espropriare e decimare) e di neri (da schiavizzare), «tutti i rappresentanti dell’intellettualità polacca» e russa – sottolinea il Führer – «devono essere annientati»; «ciò può suonare duro ma è pur sempre una legge della vita». Si spiega così la sorte riservata in Polonia al clero cattolico, in Urss ai quadri comunisti, in entrambi i casi agli ebrei, ben presenti tra i ceti intellettuali e sospettati di ispirare e alimentare il bolscevismo. Come si vede, il negazionismo di Faurisson è un insulto alla memoria sì degli ebrei, ma anche dei polacchi, dei russi ecc: siamo in presenza di «razze» a cui la hitleriana «razza dei signori» è chiamata ad imporre, con modalità diverse, un destino tragico.
Non mancano però le critiche che da alcuni ambienti vengono rivolte a queste considerazioni. Argomentare in tal modo, dicono costoro, significherebbe procedere ad un’intollerabile moltiplicazione del numero dei negazionismi. E’ l’obiezione classica dei dogmatici, che rifiutano di riflettere sulle categorie da loro utilizzate: nella formulazione di regole generali del discorso essi vedono una minaccia alla loro pretesa di atteggiarsi a giudici sovrani e inappellabili. Resta il fatto che la denuncia a senso unico del negazionismo di Faurisson risulta affetta essa stessa da negazionismo. Ed è proprio quest’ultimo negazionismo quello oggi più diffuso e più pericoloso.

2. Come gli storici di corte rimuovono la guerra coloniale di sterminio contro l’Unione Sovietica

Si prenda uno storico di successo nella corte imperiale di Washington, che scrive sul «Wall Street Journal» e che risponde al nome di Robert Conquest. Questi, parlando di Hitler, afferma perentoriamente: «Benché odiasse il comunismo “ebraico”, egli non odiava i comunisti». Tutti sanno che, sin dal suo avvento, il Terzo Reich scatena una sanguinosa repressione contro i comunisti. E questa verità non è per nulla smentita dal patto di non aggressione in vigore tra Germania e Unione Sovietica tra il 1939 e il 1941. Come ho ricordato nel mio ultimo libro (Il linguaggio dell’Impero), già quattro anni prima del patto di non aggressione i sionisti hanno stipulato nel 1935 un accordo per il trasferimento in Palestina di un numero consistente di ebrei tedeschi con una parte considerevole dei loro beni; ma ciò non sminuisce in nulla la ferocia antisemita del regime hitleriano. D’altro canto, per i nazisti ebraismo e bolscevismo tendono a fare tutt’uno: non a caso la rivoluzione d’Ottobre viene bollata come il risultato del complotto ebraico-bolscevico. Ma lo storico di corte rimuove questo capitolo di storia, così come ignora il fatto che il furore anticomunista del nazismo è strettamente intrecciato al suo programma colonialista: i comunisti che stimolano la rivoluzione delle «razze inferiori» sono individuati come l’ostacolo principale al progetto di costruzione in Europa di un grande impero continentale. Si comprendono allora le modalità con cui il Terzo Reich conduce l’aggressione contro l’Unione Sovietica. Le ricostruiamo sulla scia del recente e coraggioso libro di Geoffrey Roberts: «Alla fine del 1941 i tedeschi avevano catturato 3 milioni di prigionieri sovietici. Nel febbraio 1942 erano morti 2 milioni di questi prigionieri, per lo più a causa dell’inedia, delle malattie e dei maltrattamenti. In aggiunta a ciò, i tedeschi hanno proceduto direttamente all’esecuzione dei prigionieri sospettati di essere comunisti». E cioè, già nei primissimi mesi dell’operazione Barbarossa, i nazisti uccidono o provocano la morte di oltre due milioni di sovietici, colpendo in primo luogo i comunisti. E non è tutto. Mentre è costretto a nascondersi per sfuggire alla «soluzione finale», un eminente intellettuale tedesco di origine ebraica (Victor Klemperer) scrive una nota di diario sulla quale conviene riflettere. Siamo nell’agosto 1942 e la Zeiss-Ikon ricorre al lavoro coatto di operaie polacche, francesi, danesi, ebree e russe; la situazione di queste ultime è particolarmente dura: «Soffrono tanto la fame che le compagne ebree intervengono in loro aiuto. Ciò è proibito; ma si lascia cadere una fetta. Dopo un po’ la russa si piega e poi scompare col pane nel bagno». Dunque, stando a questa testimonianza, la condizione delle schiave russe (o sovietiche) era talvolta persino peggiore di quella delle schiave ebree. Ma Conquest sorvola in modo disinvolto sulla questione coloniale. In tal modo egli si preclude la comprensione dello stesso ebreicidio: comunisti e ebrei, spesso identificati, sono colpiti da una violenza particolare, perché sono bollati come i principali responsabili della rivolta dei popoli coloniali. In Hitler e nel suo principale ideologo (Alfred Rosenberg) si sprecano le messe in guardia contro la minaccia che l’Untermensch, il sotto-uomo bolscevico o meglio ebraico-bolscevico rappresenta per il predominio della razza bianca, ovvero dell’Occidente ovvero della razza ariana, in una parola del mondo che solo rappresenta la causa della civiltà.
Lo storico caro al «Wall Street Journal» è impegnato ad infrangere quella solidarietà (così bene illustrata da Klemperer) che le vittime, in condizioni tragiche, hanno saputo stabilire dinanzi ai loro carnefici. Siamo in presenza di un negazionismo particolarmente ripugnante.

3. Il negazionismo come mito genealogico degli Stati Uniti

A subire l’insulto del negazionismo sono le vittime del colonialismo non solo hitleriano. Alcuni anni fa, un altro storico acclamato alla corte imperiale di Washington, John Keegan, ha pubblicato un libro il cui contenuto è stato così sintetizzato nel titolo del maggiore quotidiano italiano: Indiani egoisti e cattivi. Viva Custer. In effetti, c’imbattiamo qui in un omaggio, almeno indiretto, a Custer, il generale che nella sua corrispondenza privata, riecheggiando gli umori ampiamente diffusi nella comunità bianca del tempo, si pronuncia per una «guerra di sterminio». Nel bollare come un «ricco egoista» l’indiano che vorrebbe monopolizzare per sé una terra scarsamente popolata e che si oppone all’espansione bianca, Keegan non si accorge di riprendere la teoria dello «spazio vitale», la teoria in base alla quale Hitler ha legittimato la sua guerra di sterminio contro gli «indigeni» dell’Europa orientale.
Ben si comprende l’indulgenza dell’ideologia dominante nei confronti del negazionismo che rimuove gli orrori della tradizione coloniale, dai conquistadores della «scoperta» dell’America sino al Terzo Reich. In primo luogo richiamare l’attenzione su questa lunga vicenda storica significa rendere in qualche modo omaggio alla tradizione rivoluzionaria, dai giacobini (che abliscono la schiavitù nelle colonie francesi) ai bolscevichi (che fanno appello ai popoli delle colonie a spezzare le loro catene) e all’Armata Rossa che a Stalingrado infrange il sogno hitleriano di rinverdire nella stessa Europa i fasti sanguinosi della tradizione coloniale.
In secondo luogo è da notare che il negazionismo, talvolta esplicito talaltra implicito, della tragedia subita dagli amerindi e dagli afroamericani è un essenziale elemento costitutivo del mito genealogico degli Stati Uniti, i quali possono autocelebrarsi come «la più antica democrazia del mondo», solo a condizione di considerare implicitamente irrilevante la sorte riservata alla massa di coloro che per secoli sono stati esclusi, oppressi o annientati dal popolo dei signori. Al di là delle personalità impegnate in prima fila nella lotta politica e quindi, comprensibilmente, poco interessate a mettere in discussione il mito genealogico (e l’ideologia della guerra) del paese-guida dell’Occidente e dell’Occidente in quanto tale, il negazionismo caratterizza anche l’alta cultura degli Stati Uniti e dell’Europa. Si rifletta sull’aureola di santità che sulle due rive dell’Atlantico circonda la figura di Tocqueville. Questi visita gli Stati Uniti, mentre presidente è Jackson, proprietario di schiavi (a somiglianza di quasi tutti i presidenti dei primi decenni di vita del nuovo paese), protagonista della deportazione dei Cherokee (il 25% muore già nel corso del viaggio di trasferimento) e campione della lotta ad oltranza contro quei «cani selvaggi» che sono gli indiani: egli ama infierire anche sui loro cadaveri, per ricavarne souvenir da distribuire ad amici e conoscenti. Aveva ragione Tocqueville a additare come esempio di «democrazia» gli Stati Uniti di Jackson, più in generale il paese che è tra gli ultimi ad abolire la schiavitù sul continente americano e che anzi reintroduce questo istituto nel Texas strappato con la guerra al Messico? E’ sintomatico che questa domanda elementare continui ad essere elusa.
In terzo luogo, è ben difficile per l’Occidente e soprattutto per il suo paese-guida fare i conti sino in fondo con la tradizione coloniale, in un momento in cui Washington si arroga il diritto di esportare con la forza delle armi la civiltà in ogni angolo del mondo.
Infine. Staccato dalle infamie di cui Hitler si macchia a danno degli «indiani» e dei «negri» dell’Europa orientale, l’ebreicidio è chiamato a giustificare non solo la fondazione di Israele, ma anche la sua politica di espansione coloniale. L’orrore incancellabile subito dagli ebrei nel Terzo Reich è utilizzato per rimuovere l’oppressione e la tragedia che, certo in condizioni e con modalità del tutto diverse, da decenni subiscono i palestinesi. Nell’Ottocento, con Bernard Lazare, la grande cultura ebraica di sinistra ha cercato di promuovere l’emancipazione degli ebrei non già strappando qualche concessione coloniale alle grandi potenze del tempo, bensì inserendo in un complessivo progetto rivoluzionario di orentamento anticolonialista e antimperialista la lotta degli ebrei e quella degli altri popoli oppressi, la lotta contro l’antisemitismo e quella contro il razzismo coloniale. Di qui in Lazare il paragone tra le sofferenze subite dagli ebrei e quelle inflitte ai neri nelle colonie africane della Germania o di altri paesi, agli arabi investiti dall’espansione coloniale dell’Italia o agli irlandesi da secoli oppressi dall’Inghilterra. Nel Novecento abbiamo visto Klemperer sottolineare la solidarietà tra schiave ebree e schiave russe e sovietiche del Terzo Reich. E’ questa grande tradizione che ora si cerca di isolare e mettere a tacere.

4. L’Appello degli storici per la libertà di espressione

A questo punto occorre riflettere sulla legislazione già in atto in paesi come la Francia, la Germania, l’Austria e che ora tende ed estendersi anche all’Italia e all’Unione Europea nel suo complesso. Contro questa eventualità si è pronunciato un Appello promosso da storici eminenti quali Angelo d’Orsi, Enzo Traverso ecc, che ha raccolto massicce adesione nella comunità degli storici e che anch’io ho sottoscritto: occorre rispettare la libertà di opinione e di espressione; la verità storica non è una dottrina o religione di Stato, da imporre col ricorso ai poliziotti e ai giudici. Non c’è da stupirsi che a tali argomenti si rivelino sordi gli ideologi ufficiali dell’Occidente «democratico»; più sorprendente è la scarsa sensibilità di cui danno prova gli ambienti di una certa sinistra, i quali amano generalmente vantarsi di aver rotto con la sottovalutazione della «libertà formale» che inficiava il «socialismo reale». La legislazione liberticida ci deve lasciare indifferenti perché colpisce Irving, Faurisson e altri personaggi dello stesso tipo? Almeno alla sinistra a cui prima accennavo vorrei rammentare la condanna nel 1925 formulata da Gramsci della legge mussoliniana contro le logge massoniche: essa in realtà mirava a spianare la strada per la repressione del movimento operaio. Ai giorni nostri dà pensare la caccia anticomunista alle streghe che caratterizza il clima politico dell’Europa orientale…
Ma alla giusta difesa della libertà d’opinione e di espressione, che è al centro dell’Appello degli storici e che sola può garantire una lotta credibile ed efficace contro il revisionismo storico e il negazionismo, vorrei aggiungere un’ulteriore argomentazione. La cosiddetta legislazione anti-negazionista, già in atto o da varare, sancisce una duplice, intollerabile discriminazione: Irving, che sia pure in modo parziale e contorto ha riconosciuto le infamie anti-ebraiche del Terzo Reich, ha trascorso un anno in carcere; gli storici che si fanno beffe delle vittime sovietiche della barbarie nazista ovvero che trasfigurano la guerra di sterminio contro gli indiani (assunta come modello da Hitler), sono gli eroi della scena mass-mediatica occidentale. La seconda e più grave discriminazione è quella tra le vittime: è garantita la memoria di alcune ma non di altre. Assistiamo anzi ad un fenomeno su cui vale la pena di riflettere: mentre si vuole estendere all’intera Unione Europea la legislazione anti-negazionista, ecco che in Estonia è rimosso il monumento che rende omaggio alla memoria dei soldati sovietici. A quanto pare, non mancano neppure i teantivi di riabilitazione o di comprensione del Terzo Reich. C’è un episodio rivelatore del clima che si sta affermando da alcuni anni. Nell’aprile del 2000 l’allora ambasciatore della Lettonia in Norvegia scriveva una lettera all’«International Herald Tribune» in cui così spiegava la domanda di ammissione all’Eu e alla Nato: il paese intendeva ribadire le «radici europee» e occidentali e i «legami culturali Nordici». C’è da trasecolare: ecco riemergere un motivo caro in particolare a Rosenberg e in generale al Terzo Reich, che ha condotto ad Est la sua guerra coloniale di schiavizzazione e di sterminio per l’appunto celebrando la superiore civiltà euopea e nordica, in contrapposizione alla barbarie asiatica. E, d’altro canto, il Conquest che già conosciamo mette al centro del suo discorso la celebrazione della superiorità degli «anglocelti» rispetto a tutti gli altri popoli del mondo. E’ un motivo razziale che, con qualche variante, avrebbe suscitato l’entusiasmo di Hitler. Una conclusione si impone: per essere efficace, la lotta contro il negazionismo va fatta sino in fondo e senza riprodurre, anche involontariamente, nuove discriminazioni. Si tratta comunque di una lotta che non si può condurre mettendosi alla coda dei responsabili della deriva revisionista che da decenni infuria in Occidente!

Bibliografia

Robert Faurisson, Vittorie revisioniste, Effepi, Genova, 2007, p. 12;

Robert Conquest, Stalin Breaker of Nations (1991), Penguin Books, New York, 1992, p. 174;

Geoffrey Roberts Stalin’s Wars. From World War to Cold War, 1939-1953, Yale Universitry Press, New Haven and London, 2006, p. 85;

Victor Klemperer, Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten, Aufbau, Berlin, 1996 (quinta edizione), vol. II, p. 194;

Adolf Hitler, Reden und Proklamationen 1932-1945, a cura di Max Domarus, Süddeutscher Verlag, München, 1965 (si vedano soprattutto i discorsi del 22 agosto 1939, del 28 settembre 1940 e del 30 marzo e dell’8 novembre 1941;

Valdis Krastins, Latvia’s Past and Present, in «International Herald Tribune» del 7 aprile 2000, p. 7.

Per quanto non risulta dai testi qui citati, rinvio al mio libro da poco uscito: Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari.